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Inglese morituro

  • Alex Ber
  • 4 gen 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Nel mondo del tempo-denaro ciò che è semplice viene confuso con ciò che è semplicistico. Lontani da ogni complottismo possiamo comunque distinguere le normalizzazioni in due categorie: quelle appoggiate dall’alto per comodità, la quale nel mondo del tempo-denaro si definisce come risparmio o introito; e quelle ostacolate per la scarsa efficacia pratica. Se a questa seconda categoria possiamo ascrivere le spinte divisorie, che fanno male alla borsa, quindi alla libertà democratica, nel primo gruppo dobbiamo far rientrare l’esterofilia, dove la componente ‘estero’ è tuttavia molto circoscritta, e infatti non conosco nessuno che sogni di andare a vivere in Uganda. Questo sentimento anglomane offre molte comodità: la possibilità di comunicare con più o meno tutto il resto del mondo, il risparmio sulle traduzioni di ogni genere, il comfort, per i madrelingua anglofoni, di sentirsi al di sopra di certi illetterati sciovinisti. Infatti nell’epoca del commercio sarebbe assurdo pensare che la lingua che si è imposta come universale (per ora in realtà solamente globale) non sussista di ragioni economiche. Gli stessi che difendono la semplicità dell’inglese, affermando che questa è la ragione della sua egemonia, dovrebbero quantomeno dimostrarsi conoscitori di tutte le lingue del mondo.

A fine dicembre il MIUR ha diffuso il bando per il Prin 2017 per il finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale, imponendo la domanda compilata in lingua inglese. Mentre per lo stesso bando del 2015 si chiedeva di scegliere tra italiano e inglese, ora l’opzione resta una sola. Giubilo di chi si sente cosmopolita. Ma tralasciando un attimo la caciara che si è creata attorno al misfatto, bisogna fare una considerazione più ampia; più che criticare, bisogna comprendere.

"Humanas res nec flere nec indignari, sed intelligere” (poiché chi scrive in inglese non sente la necessità di trascrivere le adeguate traduzioni, mi astengo pure io dal farlo) diceva Spinoza, e lo diceva nella Lingua. Non è nonnismo, ho 23 anni; non è neppure dandismo, ho addosso una felpa: l’inglese stesso è più latino che germanico, in seconda posizione tra le lingue che hanno ripescato termini latini adattandoli alle proprie regole (al primo posto l’italiano). L’universalità di una parola come ‘Art’ non sta nell’inglese, bensì nella grande tradizione che ha concesso a una povera lingua germanica di assumere come lemma per definire l’arte una parola forestiera, degli ex-padroni d’Europa. Certo non voglio nemmeno lontanamente dimostrare che il latino debba essere riconsiderato dopo 200 anni la lingua universale della cultura, una lingua simile ha senso di essere diffusa universalmente solo qualora la piccola percentuale di gente che dirige il mondo ha il desiderio (e l’intelligenza) di spendere tempo in favore di qualcosa che va oltre la mera utilità pragmatica. Vorrei però dissotterrare una questione di cui spesso ci dimentichiamo, e cioè che siamo agli inizi del 2018 (dopo Cristo, cioè contiamo il tempo ancora partendo dalla nascita del sedicente figlio di un dio uno e trino), e che ci sono 206 stati, di cui 196 riconosciuti sovrani. Questo numero senza contare i membri delle federazioni. Siamo ben lungi dall’unità globale, che viene messa in mostra solo nei film di fantascienza; e senza unità territoriale, vedo difficile la possibilità che una lingua prenda endemicamente il sopravvento su tutte le altre. Tanto più se consideriamo quante persone in ogni stato non conoscono minimamente l’inglese per scarsa istruzione, o addirittura sanno esprimersi solo in un idioma locale, il dialetto. Inoltre, siamo sicuri che un miliardo e passa di cinesi siano disposti a perdere le proprie radici accogliendo qualcosa che viene dal lontano mondo liberale?

L’illusione che l’inglese possa assurgere al ruolo di lingua di tutti è dettata soprattutto dalla scarsa attenzione nei confronti della storia, che da magistra vitae è divenuta magistra nihil. Quale politico si sognerebbe di studiare Cesare, Napoleone o Hitler cercando consigli su come operare? Ci sentiamo passati ad una nuova fase potenzialmente ottimale, nella quale il potere si è dovuto polverizzare attorno a uomini che portano stampata in fronte la famosa scritta ‘Tutti sono importanti, nessuno è essenziale’. Tra le crepe del sistema così atomizzato si inserisce il mercato, che attanaglia la politica esigendo di essere libero. Ma la libertà, senza giustizia sociale, è per molti solo la libertà di morire di fame. Questo è un problema di ordine troppo generale, e se continuassi su questa linea divagherei troppo. Basterà al lettore legare questo dato a quello dell’utilizzo dell’inglese, per rendersi conto di quanto sia comodo vendere in tutto il mondo maglie con scritto sopra ‘Supreme’. E se la cultura inglese fosse aborrita quanto sono aborrite altre culture, queste maglie non venderebbero.

Per concludere, vorrei fare pure qualche considerazione di più largo respiro sulla lingua, anche se ciò non cambia il mio parere a riguardo. La differenza secondo me fondamentale tra inglese e italiano può essere riassunta nella coppia left-handed vs. mancino. L’inglese è la lingua pragmatica della chiarezza: di fronte alla parola left-handed nessuno può avere dubbi. Eppure quanto suonerebbe male in italiano la traduzione letterale? Mancino esprime invece il più alto spirito della nostra lingua, la varietà non tanto lessicale, quanto etimologica. Decine di idiomi locali, numerosi conquistatori e mercanti hanno lasciato le proprie orme sul nostro paese, un tempo re dell’occidente. Semplicità o varietà? Scegliete con cautela, o vi diranno ‘Sporchi fascisti’.

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